Quel lavoro: tanto autonomo, quanto precario
di Valter MorizioNei prossimi giorni, nei comuni della Provincia di Torino, si terranno i congressi di circolo del PD, il più importante partito del centrosinistra.
In una fase così travagliata e confusa, aggravata dalla crisi economica, è importante che ci siano contributi, anche esterni, in grado di sensibilizzare quel partito su problematiche, che per la natura stessa dell’ attuale PD possono avere rilevanza secondaria, ma che tali non sono se ci si pone l’obiettivo di essere interlocutori anche del lavoro autonomo , oggi egemonizzato dal centro-destra . In particolar modo della precarietà di un certo lavoro autonomo, delle partite IVA. Fenomeno molto diffuso e rilevante, ma meno conosciuto rispetto a quello della scuola, o dei precari del settore pubblico o dei call center, quelli comunque che per il loro numero e perché sostenuti dalle forze politiche e dai sindacati sono riusciti a bucare , come si dice nel linguaggio della informazione. I precari del lavoro autonomo sono gli invisibili, quelli che sono tra noi , piccolissimi artigiani che svolgono lavori a bassa o media qualificazione con scarsa scolarità; giovani ed anche anziani, diplomati e laureati in cerca di una propria realizzazione o di una reinserimento lavorativo tramite le professioni. Nessuno parla di loro e poco si sa di queste migliaia di lavoratori precari, tranne, come è successo recentemente , quando la Caritas denuncia come dall’inizio della crisi e non solo, è diventato un fenomeno , purtroppo, quotidiano, che ai suoi sportelli si rivolgano questi tipi di lavoratori, sino a ieri impensabili.
Eppure girando per cantieri o per medie e piccole aziende si possono raccogliere le “ confessioni” di amici e conoscenti. Là emerge un mondo dove l’esistenza precaria non è l’ eccezione , ma la regola di vita, così come la sofferenza di una esistenza le cui prospettive sono giorno dopo giorno sempre più incerte e marginalizzanti. Si sente quindi le confidenze di chi, lavoratore autonomo , non ha i soldi, spesso pur avendo lavoro, per il mutuo o per l’affitto, per la stessa benzina della macchina che gli serve per la sua attività, per la spesa, per le medicine per i figli, persino per le sigarette, di carte di credito o bancomat disabilitati. Di chi per tirare avanti si deve rivolgere ad amici e parenti. Si scoprono, in verità un fenomeno, sempre esistito, ora solo più accentuato , lavoratori la cui sopravvivenza precaria non è legata solo alla terza o quarta settimana, ma alla prima, al giorno dopo, alla quotidianità. Lavoratori, comunque li si voglia definire, che vivono doppi stati di precarietà quella legata al lavoro , il non sapere da un mese all’altro, da un giorno all’altro se esiste , e poi ai pagamenti , se e quando verranno. Lavoratori la cui precarietà di vita è una norma , ma di cui la politica poco parla , poco sa e forse neppure vuol sapere , quasi che il loro stato precario dipendesse dalla “colpa” di una libera scelta personale in quanto “ imprenditori “. Ma così non è: per molti di loro non è stata una libera scelta, ma una necessità o perché non sono riusciti a trovare una occupazione stabile o perché espulsi dal sistema produttivo hanno dovuto “ riciclarsi “ come partite IVA., come semplici ditte individuali o libero professionisti, che magari di autonomo non hanno nulla , perché sono monoclienti. Magari sono gli stessi che nelle statistiche ISTAT rientrano , tra quei soggetti che non cercano più una occupazione stabile, un lavoro sicuro , ma che comunque un qualcosa da fare ogni giorno lo cercano , talvolta se lo inventano pur di campare e di sperare. Non si pensi che siano solo lavoratori a basso livello culturale o professionale, tra loro vi sono anche diplomati e laureati, più o meno giovani , anche in settori tecnici. Sono tra l’altro quelli più esposti alla concorrenza del lavoro degli stranieri. Concorrenza che determina un fenomeno poco noto , quello dell’”evasione fiscale per necessità”, che è ben altra cosa dalla evasione per ottenere illeciti profitti. Microevasione, troppo spesso criminalizzata, magari da chi il lavoro sicuro ce l’ha. Quante volte sentiamo dire che se per sopravvivere devono evadere allora è meglio che chiudano l’attività , senza pensare che se ti “adattati” ad un lavoro autonomo è perché il posto fisso garantito non si trova.
E’ l’evasione, il lavoro nero, che ti permette di competere sul piano dei costi, per poter acquisire non solo quel lavoro che comunque in parte esiste, ma anche di sopperire alle scarse disponibilità finanziarie che il committente ha. La solitudine sociale di questi lavoratori è impressionante. Sono poco considerate dalle forze politiche e sindacali, in quanto non rappresentano interessi organizzati ; dalle categorie professionali a cui o non sono iscritti e, se lo sono, non partecipano, per mancanza di interesse in quanto spesso esse tutelano maggiormente gli associati economicamente più rilevanti, o per carenze culturali , che non vuol dire carenza di istruzione ma incapacità di mettersi in relazione, di socializzare, fino al senso di vergogna della propria precarietà esistenziale, in un mondo dove conta solo il successo individuale; dal sistema economico-finanziario in quanto di scarsa rilevanza e peso contrattuale; dai media perché il loro status non fa notizia, se non quando, rilevato, a livello statistico o per fatti drammatici. Ma ciò che più si rileva è il disinteresse della politica , in particolar modo dalla sinistra a cui per almeno tre ragioni dovrebbero essere oggetto di attenzione; perché molti di loro sono lavoratori autonomi le cui condizioni esistenziali poco differiscono da quelle dei lavoratori dipendenti e rispetto a quelli dell’impiego pubblico lo sono in modo notevolmente inferiore non fosse altro per ragioni di precarietà psicologica; perché molti di loro facevano parte di quella cultura, ed il passaggio al lavoro autonomo, per propria natura più individuale, li ha emarginati, perché comunque rappresentano proprio per la loro individualità una risorsa per il Paese, non foss’altro per la loro capacità di resistenza e di reinventarsi ogni giorno la propria esistenza. Invece sono spesso dalla cultura di sinistra visti, proprio per il loro status, oggetto di indifferenza, quando non di discriminazione per un malinteso senso di scarsa partecipazione sociale alla vita politica stessa e appartenenza di “classe”. Non stupisce quindi che l’individualismo, sommato alla discriminazione, determina un loro doppio atteggiamento politico: verso un ricambiato disinteresse e/o verso l’antipolitica-antipartitica, o verso chi fa dell’individualismo e della sua difesa il proprio messaggio politico, come il centrodestra. Poiché il dato della crescita delle partite IVA, per ragioni strutturali della nostra economia, appare fisiologico, senza una proposta politica soprattutto verso questi ceti produttivi a me pare del tutto velleitaria una possibilità di affermazione del riformismo nel nostro Paese. Auguriamoci che a partire dal PD se ne prenda coscienza e si prenda in mano questa bandiera, che ha tutta l’aria di essere una parte rilevante del futuro del paese, non foss’altro perché dalle generazioni precarie nel passato sono arrivare le spinte verso l’innovazione ed il cambiamento, non solo economico, ma sociale e culturale. Infine mi auspico che, in queste assise, ci sia più attenzione per i problemi della società e meno per la distribuzione delle poltrone.
In una fase così travagliata e confusa, aggravata dalla crisi economica, è importante che ci siano contributi, anche esterni, in grado di sensibilizzare quel partito su problematiche, che per la natura stessa dell’ attuale PD possono avere rilevanza secondaria, ma che tali non sono se ci si pone l’obiettivo di essere interlocutori anche del lavoro autonomo , oggi egemonizzato dal centro-destra . In particolar modo della precarietà di un certo lavoro autonomo, delle partite IVA. Fenomeno molto diffuso e rilevante, ma meno conosciuto rispetto a quello della scuola, o dei precari del settore pubblico o dei call center, quelli comunque che per il loro numero e perché sostenuti dalle forze politiche e dai sindacati sono riusciti a bucare , come si dice nel linguaggio della informazione. I precari del lavoro autonomo sono gli invisibili, quelli che sono tra noi , piccolissimi artigiani che svolgono lavori a bassa o media qualificazione con scarsa scolarità; giovani ed anche anziani, diplomati e laureati in cerca di una propria realizzazione o di una reinserimento lavorativo tramite le professioni. Nessuno parla di loro e poco si sa di queste migliaia di lavoratori precari, tranne, come è successo recentemente , quando la Caritas denuncia come dall’inizio della crisi e non solo, è diventato un fenomeno , purtroppo, quotidiano, che ai suoi sportelli si rivolgano questi tipi di lavoratori, sino a ieri impensabili.
Eppure girando per cantieri o per medie e piccole aziende si possono raccogliere le “ confessioni” di amici e conoscenti. Là emerge un mondo dove l’esistenza precaria non è l’ eccezione , ma la regola di vita, così come la sofferenza di una esistenza le cui prospettive sono giorno dopo giorno sempre più incerte e marginalizzanti. Si sente quindi le confidenze di chi, lavoratore autonomo , non ha i soldi, spesso pur avendo lavoro, per il mutuo o per l’affitto, per la stessa benzina della macchina che gli serve per la sua attività, per la spesa, per le medicine per i figli, persino per le sigarette, di carte di credito o bancomat disabilitati. Di chi per tirare avanti si deve rivolgere ad amici e parenti. Si scoprono, in verità un fenomeno, sempre esistito, ora solo più accentuato , lavoratori la cui sopravvivenza precaria non è legata solo alla terza o quarta settimana, ma alla prima, al giorno dopo, alla quotidianità. Lavoratori, comunque li si voglia definire, che vivono doppi stati di precarietà quella legata al lavoro , il non sapere da un mese all’altro, da un giorno all’altro se esiste , e poi ai pagamenti , se e quando verranno. Lavoratori la cui precarietà di vita è una norma , ma di cui la politica poco parla , poco sa e forse neppure vuol sapere , quasi che il loro stato precario dipendesse dalla “colpa” di una libera scelta personale in quanto “ imprenditori “. Ma così non è: per molti di loro non è stata una libera scelta, ma una necessità o perché non sono riusciti a trovare una occupazione stabile o perché espulsi dal sistema produttivo hanno dovuto “ riciclarsi “ come partite IVA., come semplici ditte individuali o libero professionisti, che magari di autonomo non hanno nulla , perché sono monoclienti. Magari sono gli stessi che nelle statistiche ISTAT rientrano , tra quei soggetti che non cercano più una occupazione stabile, un lavoro sicuro , ma che comunque un qualcosa da fare ogni giorno lo cercano , talvolta se lo inventano pur di campare e di sperare. Non si pensi che siano solo lavoratori a basso livello culturale o professionale, tra loro vi sono anche diplomati e laureati, più o meno giovani , anche in settori tecnici. Sono tra l’altro quelli più esposti alla concorrenza del lavoro degli stranieri. Concorrenza che determina un fenomeno poco noto , quello dell’”evasione fiscale per necessità”, che è ben altra cosa dalla evasione per ottenere illeciti profitti. Microevasione, troppo spesso criminalizzata, magari da chi il lavoro sicuro ce l’ha. Quante volte sentiamo dire che se per sopravvivere devono evadere allora è meglio che chiudano l’attività , senza pensare che se ti “adattati” ad un lavoro autonomo è perché il posto fisso garantito non si trova.
E’ l’evasione, il lavoro nero, che ti permette di competere sul piano dei costi, per poter acquisire non solo quel lavoro che comunque in parte esiste, ma anche di sopperire alle scarse disponibilità finanziarie che il committente ha. La solitudine sociale di questi lavoratori è impressionante. Sono poco considerate dalle forze politiche e sindacali, in quanto non rappresentano interessi organizzati ; dalle categorie professionali a cui o non sono iscritti e, se lo sono, non partecipano, per mancanza di interesse in quanto spesso esse tutelano maggiormente gli associati economicamente più rilevanti, o per carenze culturali , che non vuol dire carenza di istruzione ma incapacità di mettersi in relazione, di socializzare, fino al senso di vergogna della propria precarietà esistenziale, in un mondo dove conta solo il successo individuale; dal sistema economico-finanziario in quanto di scarsa rilevanza e peso contrattuale; dai media perché il loro status non fa notizia, se non quando, rilevato, a livello statistico o per fatti drammatici. Ma ciò che più si rileva è il disinteresse della politica , in particolar modo dalla sinistra a cui per almeno tre ragioni dovrebbero essere oggetto di attenzione; perché molti di loro sono lavoratori autonomi le cui condizioni esistenziali poco differiscono da quelle dei lavoratori dipendenti e rispetto a quelli dell’impiego pubblico lo sono in modo notevolmente inferiore non fosse altro per ragioni di precarietà psicologica; perché molti di loro facevano parte di quella cultura, ed il passaggio al lavoro autonomo, per propria natura più individuale, li ha emarginati, perché comunque rappresentano proprio per la loro individualità una risorsa per il Paese, non foss’altro per la loro capacità di resistenza e di reinventarsi ogni giorno la propria esistenza. Invece sono spesso dalla cultura di sinistra visti, proprio per il loro status, oggetto di indifferenza, quando non di discriminazione per un malinteso senso di scarsa partecipazione sociale alla vita politica stessa e appartenenza di “classe”. Non stupisce quindi che l’individualismo, sommato alla discriminazione, determina un loro doppio atteggiamento politico: verso un ricambiato disinteresse e/o verso l’antipolitica-antipartitica, o verso chi fa dell’individualismo e della sua difesa il proprio messaggio politico, come il centrodestra. Poiché il dato della crescita delle partite IVA, per ragioni strutturali della nostra economia, appare fisiologico, senza una proposta politica soprattutto verso questi ceti produttivi a me pare del tutto velleitaria una possibilità di affermazione del riformismo nel nostro Paese. Auguriamoci che a partire dal PD se ne prenda coscienza e si prenda in mano questa bandiera, che ha tutta l’aria di essere una parte rilevante del futuro del paese, non foss’altro perché dalle generazioni precarie nel passato sono arrivare le spinte verso l’innovazione ed il cambiamento, non solo economico, ma sociale e culturale. Infine mi auspico che, in queste assise, ci sia più attenzione per i problemi della società e meno per la distribuzione delle poltrone.